difficili da raccontare. Anche perché, una cosa è presentare una persona con le
proprie parole, altro menù quello che si può gustare quando hai di fronte
l’interlocutore. Un po’ come guardare una partita di calcio in televisione o
vederla allo stadio. La differenza tra guardare e vedere è la stessa che passa
tra l’ascoltare e il raccontare. Un po’ come disse una volta Johnny Cash, spiegando (in un’intervista) che in ogni intervista – prima o poi – il corso delle domande devia inevitabilmente verso quei pochi argomenti su cui la gente lo aveva interrogato per più di quarant’anni. Palmiro Di Dio (Benevento – 1985), nome ai più diventato comune
dopo l’esperienza con il FC Lugano, è oramai in pianta stabile un giocatore del
Rapperswil-Jona. Per non prendere lucciole per lanterne, parliamo dello stesso
Di Dio che ha giocato nelle migliori categorie italiane e che della nazionale
del suo paese ha anche vestito la maglia con le selezioni U19 (europeo 2004) e U20 (mondiale 2005).
l’occasione, un piccolo infortunio che lo ha costretto a passare la mano. Nella
pausa di una partita, che lo vede comunque impegnato a dare supporto ai ragazzi
in campo, Palmiro racconta volentieri le motivazioni che lo hanno portato ad
accettare una nuova collocazione professionale nel mondo del calcio e quelle
(forse) più importanti che hanno rappresentato una vera e propria scelta di
vita.
ritmo imposto a chi viene considerato un possibile giocatore di buon livello.
Per anni, prima di arrivare in Svizzera, ho creduto che il mondo del calcio
fosse quello che mi ha portato ad ottenere i migliori risultati. Oggi credo di
aver capito che il calcio è quello che si vive da queste parti. La partita è
una festa. L’occasione per ritrovarsi e stare insieme attorno ad uno spettacolo
sportivo vissuto come divertimento. C’è un mondo perfetto per essere un
calciatore che dalle mie parti si ignora possa esistere. Un mondo che ruota attorno a valori che io stesso ho riscoperto il piacere di possedere”.
smesso di giocare. Questo però non rientra nei traguardi immediati del nostro
che per ora – si concentra sulla possibilità di poter contribuire alla costruzione di una squadra che possa
finalmente recitare ruolo importante in una categoria che l’ha vista negli scorsi anni protagonista senza mai lasciare il segno
in Svizzera è stato ricoperto per anni da grandi campioni. C’è molto rispetto
nei miei confronti. Lo stesso che detta le regole tra papà e ragazzini. Ne sono
ovviamente lusingato anche se per ora penso solo a fare il giocatore. Non
nascondo che un giorno mi piacerebbe poter continuare a restare sui campi però
allo stato attuale le priorità sono altre. La decisione di andare a vivere con
la famiglia in Svizzera interna non è stata semplice per quanto accompagnata da
grande entusiasmo. Prima di tutto ho pensato alla mia famiglia, ad un futuro
incerto e alla possibilità di renderlo migliore. Ho vissuto per anni in bilico
tra solidità e fragilità. La solidità di un mestiere che se sai rispettare ed
affrontare è capace di darti grandi soddisfazioni. La fragilità di un mondo
iniquo con chi viene ritenuto un fortunato. Ho provato emozioni che a parole
non si possono raccontare. Ho vissuto il terrore e la paura di poter uscire a
fare quattro passi con le mie bambine dopo una sconfitta o al termine di una
serie di risultati non accettati dai tifosi. Ho pensato a lungo a questo,
quando ho deciso di lasciare il mio paese”.