Il calcio che ci piace: intervista a Tommy Manicone

scritto da Redazione

C’è un motivo nitido che ci ha spinti a voler fare due chiacchiere con Tommaso Manicone, giovane entusiasta appassionato di una materia come quella del calcio di cui oggi tutti quanti ci sentiamo inattaccabili protagonisti.

Un motivo limpido: la luminosità dei suoi occhi quando parla dei suoi ragazzi, delle sue intenzioni, del suo modo di vedere il calcio da un punto di osservazione che in pochi abbiamo la volontà di capire. Ce ne sarebbe anche un secondo: la sua giovane età e la curiosità di farsi trasportare in un mondo di cui pretendiamo di aver capito tutto senza conoscere niente. Chiamatela intervista. Chiamatelo approfondimento. Lo scopo, è quello di incuriosire, raccontando il Tommaso Manicone, calciatore ed agente.

Dopo l’introduzione, ci permettiamo qualche premessa, senza la quale non sarebbe possibile seguire il percorso che abbiamo scelto per ottenere delle risposte a domande che l’interlocutore stesso ha definito “atipiche e bellissime”.

Il calcio. Oggi più che qualche decina di anni fa, un mondo costruito su facili miliardi. Maurizio Naldini l’aveva già definita “un’industria che esaspera la concorrenza e produce un bene assolutamente inutile”.  Dietro ogni grande campione non può oramai mancare un fisiologo, un biologo, uno psicologo e nemmeno una persona che ne segue minuziosamente il percorso di crescita agonistica. Non ha importanza che si tratti di uno sport di squadra o singolo. Gli allenatori si affidano spesso a queste figure prima di scegliere un atleta da gestire.  C’è chi trova tutto questo mostruoso e rimpiange un passato autoctono, spontaneo e senza filtri di alcun genere. C’è chi rifiuta di accettare lo sport di oggi associando gli atleti a dei robot con un timer che scandisce il tempo al posto del cuore.

Come hai maturato la volontà di buttarti in un mondo di cui non c’è anima in circolazione a parlarne con rispetto?

“L’aspetto che ha fatto la differenza nella mia scelta credo sia stata la passione: amo tutto di questo sport, mi piace molto confrontarmi su temi calcistici con tutti gli addetti ai lavori. Il confronto è uno dei modi migliori per crescere. Mi piace riprendere una celebre frase di Confucio: “Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua”. Penso che spesso ci si dimentica una considerazione: il calcio è prima di tutto uno sport e viene purtroppo visto da molti soltanto come un business”.

Attualmente quanti sono i giocatori che segui personalmente?

“Sono 11 calciatori. Penso sia un numero ideale per riuscire a seguirli tutti a 360 gradi. Ogni giocatore ha bisogno di un percorso costruito in base alle proprie qualità tecnico-tattiche e al suo carattere. Preferisco avere un numero di calciatori con i quali poter sviluppare insieme un percorso che sia non solo calcistico, ma anche personale. Se un giocatore si trova bene personalmente anche fuori dal campo in un determinato luogo, ovviamente anche le sue prestazioni in campo saranno maggiormente positive. Spesso soprattutto per i ragazzi più giovani non è così evidente andare a giocare lontano da casa: per questo bisogna trovare l’ambiente ideale per ciascuno”.

Ci spieghi il tuo progetto e soprattutto con quale filosofia e con quanti collaboratori ti stai muovendo?

“Il mio progetto è quello di riuscire ad accompagnare i miei calciatori più in alto possibile. Come ho detto prima, non mi piace prendere giocatori per far numero; ognuno è importante tanto quanto gli altri. Per questo, prima di iniziare a collaborare con un nuovo ragazzo, mi piace valutare tutti gli aspetti e non parlo solamente di quelli calcistici.  Sono convinto che al giorno d’oggi la testa e le motivazioni facciano la differenza molto più delle doti tecniche.

Lavoro principalmente in Italia e Svizzera.  Ovviamente ho diversi collaboratori che si muovono in diversi paesi, come Inghilterra, Germania, Polonia e Grecia. Reputo fondamentale avere persone di fiducia che conoscano bene tutte le dinamiche di determinati paesi e società; mandare un ragazzo a giocare in un club e in un paese diverso dal proprio non è mai una scelta casuale, bensì una decisione ponderata e presa dopo un’attenta valutazione di tutti i fattori”.

In un’orgia di luoghi comuni come quella del calcio, ce n’è oggi uno che più di altri merita attenzione. Ma è proprio vero che la maturità e l’intelligenza che oggi accomunano un numero sempre più alto di giocatori dia enorme fastidio ai grandi dirigenti del calcio? E’ proprio vero che per il bene del gioco e per gli affari di chi lo rende sempre più appetibile i protagonisti dovrebbero restare ignoranti?

“ Non sono d’accordo: penso che in questi anni in tutto il mondo del calcio si sia lavorato molto nel cercare di sensibilizzare i ragazzi sull’importanza della scuola, che è un tema a me molto caro. Io personalmente sono laureato in Giurisprudenza e tengo molto a sottolineare anche ai miei calciatori come la formazione scolastica sia fondamentale, sia per una cultura personale, che nella vita in generale, oggi nel calcio è sempre più difficile emergere, per questo bisogna avere sempre un piano B”.

Quanto è importante in un calcio sempre più povero di talent scout e di presidenti o direttori competenti, il fattore social/mediatico nel giudizio di massa sul valore di un giocatore? Per dirla in termini spicci: nel tuo lavoro che importanza dai alle pagelle date a un tuo “assistito” da un giornalista che della partita vede si e no un tempo e a quello che ti viene dichiarato direttamente dal suo allenatore?

“Sono consapevole che in generale i mass media hanno una grande capacità di influire sui pensieri delle persone, soprattutto nel calcio. Per me è fondamentale avere equilibrio: per questo insieme ai ragazzi cerchiamo di non farci condizionare da quanto scrivono i giornali, sia in positivo che in negativo, perché l’unica cosa che conta è il lavoro quotidiano, e solo attraverso questo si possono raggiungere i risultati e gli obiettivi prefissati”.

Per quanto mi riguarda ci tengo molto ad andare a vedere personalmente sia partite che allenamenti dei miei giocatori, credo che la prestazione della domenica sia lo specchio di quanto si fa durante la settimana. L’opinione dell’allenatore è sicuramente importante, soprattutto perché vedendo i ragazzi tutti i giorni ha la possibilità di giudicare gli stessi meglio di chiunque altro”.

Negli anni ’70 si sosteneva che negli altri paesi europei, a differenza dell’Italia, una volta terminata la partita, il giocatore fosse un uomo come tutti gli altri. Si sosteneva che in Italia un calciatore gioca due partite nello stesso momento: la seconda, di tipo emotivo con la paura di sbagliare per poi essere costretto a vergognarsi o a dover dare delle giustificazioni. Pensi che sia ancora così, tu che hai avuto già modo di entrare nel dunque dei campionati di diversi paesi?

“Credo che ogni realtà abbia i suoi pro e i suoi contro. In Italia il calcio è vissuto con molta passione e soprattutto nella cultura popolare è il tema maggiormente ricorrente nel quotidiano. Un qualsiasi calciatore che ambisce ad arrivare a giocare a certi livelli non può farsi influenzare da quanto sente dire da terzi che non facciano parte della squadra o dello staff, anche se spesso ciò non risulta affatto facile”.

I milioni corrono, ma il più delle volte il calciatore o il suo agente se li vedono passare davanti senza poterli afferrare. Uno su cento riesce a guadagnare qualcosa di consistente. E’ proprio vero che spesso si legge di trattative economiche che poi realmente non sono avvenute o non si concretizzeranno se non in minima parte?

“Ovviamente ogni parte in causa deve fare il proprio lavoro e quindi anche i giornalisti. Purtroppo spesso si pensa solo a vendere titoli senza andare a verificare la veridicità delle notizie, dando così informazioni che alla fine si rilevano sbagliate. Per quanto mi riguarda, mi piace lavorare sotto traccia e confermare una determinata notizia solo dopo che il trasferimento è ufficialmente avvenuto, soprattutto per i ragazzi che vedono accostati i loro nomi a squadre, quando magari nella realtà non c’è nulla di vero”.

In un’industria che mira senza mezzi termini al profitto, il calcio vive realmente grazie alla disumanizzazione dei suoi protagonisti?

“No, anzi, il bello del calcio è il fatto che riesce ancora a regalare forti emozioni. Queste, vengono vissute soprattutto dai protagonisti: pensate alle sensazioni dei giocatori dell’Inter che in pochi minuti si sono ritrovati ad essere sotto nel derby per 0-2 e a ribaltare la situazione in qualche istante vincendo alla fine per 4-2. Si tende a vedere i calciatori come delle macchine perfette ed indistruttibili, dimenticandoci spesso che sono persone come tutte le altre e come tali provano emozioni e sentimenti come qualsiasi essere umano”.

A volte si ha la sensazione che la repubblica del calcio sia come sospesa su di una palafitta. Che dall’alto del loro terrazzo di legno i dirigenti non si rendano conto della realtà che gli passa sotto. Sei d’accordo?

“No… non sono d’accordo. Questa è una sensazione che si può avere dall’esterno, ma vi assicuro che non è affatto così, la maggior parte dei direttori è ben cosciente e consapevole di tutta la realtà che gli circonda, spesso ci sono pregiudizi che non corrispondono al vero. Ovviamente non è facile prendere delle decisioni nella scelta di un determinato giocatore piuttosto che un altro, soprattutto al giorno d’oggi, dove vengono proposti decine e decine di giocatori al giorno”.

Chiudiamo raccontando anche la parte del Tommy appassionato giocatore?

“Certamente. Ho sempre giocato come centrocampista offensivo. Ho iniziato a tirare i primi calci al pallone nel Basso Ceresio, successivamente, dalla U14 alla U18, ho giocato nel Team Ticino, per poi passare al Castello (club con cui abbiamo vinto il campionato di seconda lega) e in varie squadre come Balerna, Malcantone, di nuovo Castello. Da due anni sono a Rancate, in terza lega; gioco per divertimento e per non ingrassare troppo, dato che tra le varie cene c’è il rischio di metter su qualche chilo di troppo..”.

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