dove sedermi; le tifoserie erano costituite dai
genitori degli atleti (ho scoperto immediatamente
che alcuni genitori dei giocatori sono i peggiori
tifosi che esistano) seduti gli uni a destra e gli altri
a sinistra della tribunetta.
Ho così deciso di sedermi al centro e mi sono
imposto di stare tranquillo, qualsiasi cosa
avessero detto.
Di quella partita non ricordo nè il risultato, nè chi
abbia vinto nè altre cose; non vedevo l’ora che
finisse e quando ciò è successo mi sono sentito
liberato da un peso.
Di parole ne erano volate, sia dall’una che
dall’altra parte; verso l’arbitro, verso sua madre,
verso gli avversari, verso i guardalinee
(accompagnatori delle squadre) verso
l’allenatore avversario, verso il proprio allenatore
che aveva il torto di aver fatto uscire suo figlio o di
sminuire le sue capacità facendolo giocare in un
ruolo non suo.
L’unico ad esserne uscito indenne ero io;
nessuna offesa nei miei confronti. Bene, mi dico;
se è così si può continuare.
Il giudizio del tutor era stato soddisfacente e così,
dopo averlo ringraziato, abbiamo preso la strada
di casa esternando le nostre rispettive
impressioni.
Lui era felice ed io, a questo punto, pure.
Era l’inizio di una carriera nuova, per lui
entusiasmante.
Dopo quella domenica ce ne sono state molte
altre; io l’ho sempre accompagnato e condiviso
con lui le ansie, le gioie, gli errori, il “pathos” delle
partite importanti, le violenze in campo e fuori.
Talvolta ho sofferto per lui; a me non è mai
successo nulla, io non ho mai bisticciato con
nessuno, neanche con chi, durante un suo rientro
negli spogliatoi, gli ha sputato in faccia. Ho sempre sopportato perché, col passare del
tempo, constatavo che mio figlio stava
diventando come non avrei osato sperare;
vedevo crescere in lui una personalità marcata,
una sicurezza determinata, ma bilanciata da una
giusta autocritica, una forte capacità di dominare
le emozioni, di gestire le situazioni difficili ed un
senso dell’ironia che era più deterrente di una
scarica di pugni.
Accipicchia, mi dicevo; sono un padre fortunato.
Non invidiavo certo né i giocatori ne, tanto meno, i
loro genitori.
Mio figlio aveva intrapreso uno sport che lo aveva
plasmato nella migliore maniera che io avessi
potuto pretendere e sperare.
Ero orgoglioso di lui e felice.
Poi, purtroppo, anche per lui, la bella favola è
finita. Ad un passo dal passaggio fra i
professionisti, si è trovata la strada sbarrata da
due colleghi più meritevoli di lui e così, complice,
in questo unico caso, una cattiva gestione della
proprie capacità di dominare le sue emozioni, ha
fatto qualche balzo indietro nelle categorie.
Tuttavia, amando in maniera smisurata questa
attività, non si è perso d’animo ed ha continuato e
continua ancora oggi, dopo quasi venti anni da
quella prima domenica, ad arbitrare.
Per quanto mi riguarda, dopo che è stato, per così
dire “retrocesso” io ho smesso di seguirlo, anche
perché era ormai perfettamente in grado di
gestirsi da solo ed io avevo anche un altro figlio a
cui dare il mio contributo educativo e, per di più,
una moglie che è stata veramente paziente a
concedermi tante domeniche di “stress”.
Io non so se qualche padre che non ha un figlio
arbitro leggerà queste poche righe, ma se lo
facesse, io concludo dicendogli di non avere
dubbi; se desidera che il proprio figlio acquisisca
quelle virtù di cui parla questo articolo, lo indirizzi
alla carriera di arbitro. Con un po’ di fortuna si
troverà fra le mani…… un Uomo.
Articolo tratto dalla rivista “L’Arbitro” . Numero 2 – Marzo 2015 – Per gentile concessione degli autori.